venerdì 26 dicembre 2014

L'abbandono della bellezza


«È divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all’utile. L’esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull’unica categoria del “comprensibile a tutti” non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere.

Liturgia “semplice” non significa misera o a buon mercato: c’è la semplicità che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale, storica.

Anche qui si è messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della “partecipazione attiva”: ma questa “partecipazione” non può forse significare anche il percepire con lo spirito, con i sensi?

Non c’è proprio nulla di “attivo” nell’ascoltare, nell’intuire, nel commuoversi?

Non c’è qui un rimpicciolire l’uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità?

Chiedersi questo non significa certo opporsi allo sforzo per far cantare tutto il popolo, opporsi alla “musica d’uso”: significa opporsi a un esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né dalle necessità pastorali.

Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica “corrente” cade nell’inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche “città della gloria”, luogo dove sono raccolte e portate all’orecchio di Dio le voci più profonde dell’umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano».

Joseph Ratzinger in: Vittorio Messori, Rapporto sulla fede. Capitolo Nono - Liturgia tra antico e nuovo. (1984)

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sabato 20 dicembre 2014

La notte di Natale


Ier sera,
a mezzanotte meno ‘n quarto,
uscenno pè la messa de Natale,
m’è capitato un fatto…
un fatto tale,
che non so come non me pija un infarto.

All’ultimo ripiano,
all’improviso,
me so’ urtato de fianco,
con un vecchio impalato addosso ar muro
e margrado in quer punto fusse scuro,
vedevo bene solamente il viso
incorniciato da un barbone bianco,
la parete scura dove stava appoggiato,
a poco a poco è diventata azzura.

- “Io so’ papà Natale” - m’ha spiegato
- “lo stesso de quann’eri regazzino,
de quanno m’aspettavi,
guardanno nella cappa der cammino,
che te portassi quello che sognavi.

Sino a quarch’anno fa, quanno arivavo io,
se respirava er bene assieme all’aria
e l’ommeni de bona volontà,
senza la malattia contestataria,
credeveno alla nascita de Dio,
mo co’ ‘sta libbertà confusionaria,
c’è tanta gioventù che stenta a crede
e mette in discusione er fonnamento de’la religione,
giocannose er conforto de’ la fede,

Purtroppo anno pè anno
la vita sta cambianno,
pre esempio li pupetti, mo vonno:
er mitra, e’ razzo, l’avioggetti,
er casco d’alluminio,
l’abitacolo pè annà a scoprì un pianeta
e la stella commeta
che illuminò la notte der miracolo
per annuncià er Messia,
pè ricordalla non ce sta poeta,
purtroppo hanno ammazzato la poesia.” –

Ho arzato l’occhi ar cèlo
come pè dì... “ce penserà quarcuno”...
quanno l’ho riabbassati,
avanti a me nun c’era più nesuno.

C’era solo un sacchetto, un cartoncello
co’quarche giocarello cascato giù per tera,
un cavalluccio a dondolo, un tamburo,
‘na sciabbola, ‘na tromba, ‘n bambolotto,
un sordatino cor fucile rotto
assieme a ‘no straccetto tricolore,
robbetta antica senza più valore.

Le campane de Roma in quer momento
hanno detto fra poco è mezzanotte
non fate tardi al vecchio appuntamento,
ma doppo que’ rondò de pace e bene
c’è stato ‘no scombussolo,
la notte s’è riempita de urli e de sirene
e va a capì chi fosse
o pompieri o pantere o crocerosse.

Mentre stavo così,
c’è stata pè guastamme la nottata,
un’antra novità, la messa bitte
defatti da ‘na chiesa quà vicino
me arivato un fracasso indiavolato
de batterie, sassofoni, chitare,
che avrà fatto tremà Gesù bambino
e tutte le fiammelle de’ l’artare.

Entrato a casa,
ho messo er catenaccio dicenno
- “Mo che faccio...” - poi ho detto
- “Perdoneme Gesù, si pregherò quàssù” -
E pensanno l’armonium effatato,
sentivo er sono più scommunicato
e mentre che a’ la radio
parlava er Santo Padre,
io me so’ inginocchiato
davanti all’artarino
de mi madre.

Aldo Fabrizi, 1970

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sabato 13 dicembre 2014

È un fuoco puramente spirituale


«Oggi, sotto la guida di un angelo, sono stata negli abissi dell'inferno.
E un luogo di grandi tormenti per tutta la sua estensione spaventosamente grande.

Queste le varie pene che ho viste: la prima pena, quella che costituisce l'inferno, è la perdita di Dio; la seconda, i continui rimorsi di coscienza; la terza, la consapevolezza che quella sorte non cambierà mai; la quarta pena è il fuoco che penetra l'anima, ma non l'annienta; è una pena terribile: è un fuoco puramente spirituale acceso dall'ira di Dio; la quinta pena è l'oscurità continua, un orribile soffocante fetore, e benché sia buio i demoni e le anime dannate si vedono fra di loro e vedono tutto il male degli altri ed il proprio; la sesta pena è la compagnia continua di satana; la settima pena è la tremenda disperazione, l'odio di Dio, le imprecazioni, le maledizioni, le bestemmie.

Queste sono pene che tutti i dannati soffrono insieme, ma questa non è la fine dei tormenti. Ci sono tormenti particolari per le varie anime che sono i tormenti dei sensi. Ogni anima con quello che ha peccato viene tormentata in maniera tremenda e indescrivibile. Ci sono delle orribili caverne, voragini di tormenti, dove ogni supplizio si differenzia dall'altro.

Sarei morta alla vista di quelle orribili torture, se non mi avesse sostenuta l'onnipotenza di Dio. Il peccatore sappia che col senso col quale pecca verrà torturato per tutta l'eternità. Scrivo questo per ordine di Dio, affinché nessun'anima si giustifichi dicendo che l'inferno non c'è, oppure che nessuno c’è mai stato e nessuno sa come sia.

Io, Suor Faustina, per ordine di Dio sono stata negli abissi dell'inferno, allo scopo di raccontarlo alle anime e testimoniare che l'inferno c'è.
Ora non posso parlare di questo. Ho l'ordine da Dio di lasciarlo per iscritto.
I demoni hanno dimostrato un grande odio contro di me, ma per ordine di Dio hanno dovuto ubbidirmi.

Quello che ho scritto è una debole ombra delle cose che ho visto. Una cosa ho notato e cioè che la maggior parte delle anime che ci sono, sono anime che non credevano che ci fosse l'inferno.

Quando ritornai in me, non riuscivo a riprendermi per lo spavento, al pensiero che delle anime là soffrono così tremendamente, per questo prego con maggior fervore per la conversione dei peccatori, ed invoco incessantemente la Misericordia di Dio per loro. O mio Gesù, preferisco agonizzare fino alla fine del mondo nelle più grandi torture, piuttosto che offenderTi col più piccolo peccato».

(Santa Faustina Kowalska – Diario del 20 ottobre 1936 - II° Quaderno)

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lunedì 8 dicembre 2014

Per ricordare il Cielo alla gente


«S’avvicina Natale e le vie della città s’ammantano di luci.
Una fila interminabile di negozi, una ricchezza senza fine, ma esorbitante. A sinistra della nostra macchina ecco una serie di vetrine che si fanno notare. Al di là del vetro nevica graziosamente: illusione ottica. Poi bambini e bambine su slitte trainate da renne e animaletti waltdisneyani. E ancora slitte e babbo-Natale e cerbiatti, porcellini, lepri, rane burattine e nani rossi. Tutto si muove con garbo.
Ah! Ecco gli angioletti… Macché! Sono fatine, inventate di recente, quali addobbi al paesaggio bianco.
Un bambino coi genitori si leva sulle punte dei piedini e osserva, ammaliato.

Ma nel mio cuore l’incredulità e poi quasi la ribellione: questo mondo ricco si è "accalappiato" il Natale e tutto il suo contorno, e ha sloggiato Gesù!
Ama del Natale la poesia, l’ambiente, l’amicizia che suscita, i regali che suggerisce, le luci, le stelle, i canti.
Punta sul Natale per il guadagno migliore dell’anno.
Ma a Gesù non pensa.
"Venne fra i suoi e non lo ricevettero…"
"Non c’era posto per lui nell’albergo"… nemmeno a Natale.

Stanotte non ho dormito. Questo pensiero mi ha tenuta sveglia.
Se rinascessi farei tante cose. Se non avessi fondato l’Opera di Maria, ne fonderei una che serve i Natali degli uomini sulla terra. Stamperei le più belle cartoline del mondo. Sfornerei statue e statuette coll’arte più pregiata. Inciderei poesie, canzoni passate e presenti, illustrerei libri per piccoli e adulti su questo "mistero d’amore", stenderei canovacci per rappresentazioni e film.
Non so quel che farei…

Oggi ringrazio la Chiesa che ha salvato le immagini.
Quando sono stata, venticinque anni fa, in una terra in cui dominava l’ateismo, un sacerdote scolpiva statue d’angeli per ricordare il Cielo alla gente. Oggi lo capisco di più. Lo esige l’ateismo pratico che ora invade il mondo dappertutto.
Certo che questo tenersi il Natale e bandire invece il Neonato è qualche cosa che addolora.
Che almeno in tutte le nostre case si gridi Chi è nato, facendoGli festa come non mai».

(Chiara Lubich. Dall'introduzione di “Hanno sloggiato Gesù. Riportiamo il Bambino al centro del Natale”, a cura di Lucia Velardi, Città Nuova 2005).

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martedì 2 dicembre 2014

Gli stranieri non sono nemici


«L’Italia è un paese strano. Ci vuole molto tempo per capire gli italiani. (…) Ma una cosa è certa, in Italia gli stranieri non sono nemici. Si direbbe che gli italiani sono più nemici di se stessi che degli stranieri: è curioso ma è così. (…)

Agli italiani non piacciono le leggi, anzi gli piace disobbedirle: è il loro gioco, come il gioco dei russi sono gli scacchi. Gli piace imbrogliare; essere imbrogliati gli dispiace, ma non tanto: quando qualcuno li inganna, pensano «vedi che bravo, è stato più furbo di me», e non preparano la vendetta ma tutt’al più la rivincita. Come agli scacchi.

Anche come cristiani gli italiani sono strani. Vanno a Messa ma bestemmiano. Chiedono grazie alla Madonna e ai santi, ma a Dio mi pare che cedano poco. Sanno i dieci comandamenti a memoria, ma ne rispettano al massimo due o tre. Io credo che loro aiutino chi ne ha bisogno perché sono brava gente, che ha sofferto molto e che sa che chi ha bisogno deve essere aiutato».

(Primo Levi. “Se non ora, quando?” Einaudi Editore, 1982)

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martedì 25 novembre 2014

Una sorta di allegria


«Tutti conoscono la Chevrolet, l'auto con maggior vendita del gruppo General Motors, uno dei più grandi produttori di autoveicoli del mondo. Il marchio della Chevrolet è una croce, con il braccio orizzontale più lungo. Pare certo che quello stemma derivi dalla croce della bandiera svizzera, in cui era nato il fondatore, Louis Chevrolet. Ma, per una sorta di rispetto umano, l'azienda da molto tempo nega che questa sia l'origine e afferma che è il disegno stilizzato di un papillon, di un farfallino, cioè ciò che si portava e talvolta oggi si porta come alternativa alla cravatta.

Ma è una spiegazione che non convince il mondo musulmano, a tal punto che nei Paesi islamici è partito un boicottaggio: si consiglia ai credenti nel Corano di non girare con un auto con la croce sul cofano se non si vuole incorrere in grossi guai. La Chevrolet, danneggiata fortemente nelle vendite, ha reagito denunciando un equivoco, rilanciando alla grande la faccenda del farfallino. Non si esclude che decida di cambiare marchio, dopo averlo utilizzato per oltre un secolo.

Sono cose, queste, che indignano alcuni. A me, invece, danno una sorta di allegria. L'allegria di riscoprire ogni volta quanto sia bello essere cristiani, con la libertà che ne deriva. La libertà di mangiare e bere tutto ciò che mi aggrada, a cominciare da un panino col salame accompagnandolo con un bicchier di vino; la libertà di non dovere digiunare a comando per un mese intero (rimpinzandomi però – vertice del formalismo – al calar del sole); la libertà di non dover battere la fronte a terra cinque volte al giorno per salmeggiare preghiere in una lingua antica e ormai incomprensibile alla stragrande maggioranza dei devoti; la libertà di non affrontare un lungo pellegrinaggio nel deserto come condizione per la salvezza; la libertà di fare elemosina a chiunque sia bisognoso, senza chiedermi se sia o no musulmano egli pure.

E la libertà, infine, di comprarmi l'auto che mi pare, anche se, per caso, avesse sul cofano la mezzaluna islamica».

Di Vittorio Messori. Il Timone – Aprile 2014

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mercoledì 19 novembre 2014

La cultura del piagnisteo


«Quando l’antielitarismo degli anni Sessanta ha preso piede nella scuola americana si è portato dietro una sconfinata, cinica indulgenza verso l’ignoranza degli studenti, razionalizzata come riguardo per “l’espressione personale” e “l’autostima”.

Per “non stressare” i ragazzi con troppe letture e troppi sforzi cerebrali (cosa che, al contatto con richieste di livello universitario, poteva far crollare le loro fragili personalità), le scuole hanno ridotto la quantità delle letture, riducendo così, automaticamente, anche la loro padronanza della lingua.

Non esercitati all’analisi logica, male attrezzati per sviluppare e capire un’argomentazione, non avvezzi a consultare testi per documentarsi, gli studenti hanno ripiegato sulla sola posizione che potevano rivendicare come propria: le loro sensazioni su questo o su quello.

Quando gli stati d’animo sono i principali referenti di un’argomentazione, attaccare una tesi diventa automaticamente un insulto a chi la sostiene, o addirittura un attentato ai suoi “diritti” o supposti tali; ogni argomentum diventa ad hominem e rasenta la molestia, se non la violenza vera e propria. “Mi sento molto minacciato dal tuo rifiuto delle mie opinioni su [barrare una casella]: il fallocentrismo / la Dea Madre / il Congresso di Vienna / il Modulo di Young”.

Provate a tramandare questa soggettivizzazione del discorso per due o tre generazioni di studenti che poi diventano insegnanti, con progressivo accumulo di diossine sessantottesche, e avrete il background entropico della nostra cultura del piagnisteo».

Robert Hughes, La cultura del piagnisteo (La saga del politicamente corretto), Adelphi.

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mercoledì 12 novembre 2014

Qui accade Qualcosa


«La liturgia non è uno show, uno spettacolo che abbisogni di registi geniali e di attori di talento. La liturgia non vive di sorprese “simpatiche”, di trovate “accattivanti”, ma di ripetizioni solenni. Non deve esprimere l’attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro.

Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere “fatta” da tutta la comunità, per essere davvero sua. È una visione che ha condotto a misurarne il “successo” in termini di efficacia spettacolare, di intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare.

Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è lo assolutamente Altro che, attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi».

Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità: anche per questo deve essere “predeterminata”, “imperturbabile”, perché attraverso il rito si manifesta la Santità di Dio.

Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata “la vecchia rigidità rubricistica”, accusata di togliere “creatività”, ha coinvolto anche la liturgia nel vortice del “fai-da-te”, banalizzandola perché l’ha resa conforme alla nostra mediocre misura».

Vittorio Messori: Rapporto sulla fede. Intervista al Card. Ratzinger. Capitolo Nono - Liturgia tra antico e nuovo. (1984)

venerdì 7 novembre 2014

La rinnovazione del sacrificio di Cristo


«La liturgia, per alcuni sembra ridursi alla sola eucaristia, vista quasi sotto l’unico aspetto del “banchetto fraterno”. Ma la messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per commemorare l’ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane.

La messa è il sacrificio comune della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si partecipa. È la rinnovazione sacramentale del sacrificio di Cristo: dunque, la sua efficacia salvifica si estende a tutti gli uomini, presenti e assenti, vivi e morti. Dobbiamo riprendere coscienza che l’eucaristia non è priva di valore se non si riceve la Comunione: in questa consapevolezza, problemi drammaticamente urgenti come l’ammissione al sacramento dei divorziati risposati possono perdere molto del loro peso opprimente.

Se l’eucaristia è vissuta solo come il banchetto di una comunità di amici, chi è escluso dalla ricezione dei Sacri Doni è davvero tagliato fuori dalla fraternità. Ma se si torna alla visione completa della messa (pasto fraterno e insieme sacrificio del Signore, che ha forza ed efficacia in sé, per chi vi si unisce nella fede), allora anche chi non mangia quel pane partecipa egualmente, nella sua misura, dei doni offerti a tutti gli altri».

Vittorio Messori: Rapporto sulla fede. Intervista al Card. Ratzinger. Capitolo Nono - Liturgia tra antico e nuovo. (1984)

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sabato 1 novembre 2014

Perchè dovrebbero?


«Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa?
Perché dovrebbero amare le sue leggi?
Essa ricorda loro la Vita e la Morte,
e tutto ciò che vorrebbero scordare.

È gentile dove sarebbero duri,
e dura dove essi vorrebbero essere teneri.

Ricorda loro il Male e il Peccato e altri fatti spiacevoli...
Essi cercano sempre d'evadere
Dal buio esterno e interiore
Sognando sistemi talmente perfetti
che più nessuno avrebbe bisogno d'essere buono».

(Thomas Stearns Eliot)

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lunedì 27 ottobre 2014

Hanno visto eppure hanno creduto



La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. 
Tutto sarà negato. 
Tutto diventerà un credo. 
Sarà una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. 
E una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. 

Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. 
Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. 
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. 

Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. 
Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. 
Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

S’avvicina il tempo – e per alcuni è già venuto – in cui una vita normale, una vita da onest’uomo, richiederà sforzi da eroe. 
Quale supremo dono della vita attraverso la morte è quest’obbligo di essere eroi soltanto per esistere, per restare fedeli a una banale linea di vita, che i nostri antenati seguivano così naturalmente come respiravano!

(Gilbert Keith Chesterton – 1874-1936, da “Eretici”)

lunedì 20 ottobre 2014

La verità dell'amore




«La luce dell’amore, propria della fede, può illuminare gli interrogativi del nostro tempo sulla verità.

La verità oggi è ridotta spesso ad autenticità soggettiva del singolo, valida solo per la vita individuale. Una verità comune ci fa paura, perché la identifichiamo con l’imposizione intransigente dei totalitarismi.

Se però la verità è la verità dell’amore, se è la verità che si schiude nell’incontro personale con l’Altro e con gli altri, allora resta liberata dalla chiusura nel singolo e può fare parte del bene comune.

Essendo la verità di un amore, non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo.

Risulta chiaro così che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro.

Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede.

Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti
».


(Francesco - Lumen Fidei 34)

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martedì 14 ottobre 2014

Vi siete liquidati da soli



“Casa in distruzione è la sapienza per il fatuo, e parole disordinate la scienza per l’insensato”. (Eccl. 21,18)

Il commissario (ben intenzionato): “Compagno cristiano, mi puoi dire una buona volta chiaramente che cosa siete voi cristiani? Che cosa propriamente volete ancora nel nostro mondo? In che cosa vedete il vostro diritto all’esistenza? Qual è il vostro mandato?

Il cristiano: Anzitutto noi siamo uomini come tutti gli altri, che collaborano all’opera di edificazione del futuro.

Il commissario: La prima cosa la credo, la seconda la voglio sperare.

Il cristiano: Da qualche tempo noi siamo infatti “aperti al mondo”, ed alcuni di noi si sono persino seriamente “convertiti al mondo”.

Il commissario: Questo mi pare un sospetto linguaggio da prete. Sarebbe, infatti, ancor più bello se voi, “uomini come gli altri”, vi foste convertiti già prima ad un’esistenza degna di uomini. Ma veniamo al fatto. Perché siete ancora cristiani?

Il cristiano: Oggi noi siamo cristiani maturi, pensiamo ed agiamo con responsabilità morale.

Il commissario: Lo voglio sperare, dal momento che vi presentate come uomini. Ma credete qualcosa di particolare?

Il cristiano: Questo non è tanto importante; ciò che importa è la parola epocale; l’accento oggi cade sull’amore del prossimo. Chi ama il prossimo, ama Dio.

Il commissario: Nell’ipotesi che esista. Ma poiché non esiste, non l’amate.

Il cristiano: Lo amiamo implicitamente, in modo non oggettivo.

Il commissario: Ah, la vostra fede quindi non ha un oggetto. Andiamo avanti. La cosa diventa chiara.

Il cristiano: Non è del tutto così semplice. Noi crediamo in Cristo.

Il commissario: Ne ho già sentito parlare. Ma sembra che storicamente se ne sappia maledettamente poco.

Il cristiano: Concesso. Praticamente nulla. Perciò noi non crediamo tanto al Gesù storico quanto al Cristo del kerygma.

Il commissario: Che razza di parola è questa? Cinese?

Il cristiano: Greco. Significa la predicazione del messaggio. Noi ci sentiamo toccati dall’evento linguistico del messaggio della fede.

Il commissario: E che mai c’è in questo messaggio?

Il cristiano: L’importante è il modo in cui se n’è toccati. Ad uno può permettere il perdono dei peccati. Questa, in ogni caso, era l’esperienza della comunità primitiva. A ciò dev’essere stata indotta dagli eventi relativi al Gesù storico, del quale veramente non sappiamo abbastanza per essere certi che lui...

Il commissario: E questo chiamate la vostra conversione al mondo? Siete gli oscurantisti di sempre. È con simili chiacchiere prolisse che volete collaborare all’edificazione del mondo!

Il cristiano (gioca la sua ultima carta): Abbiamo Teilhard de Chardin, che in Polonia fa una grande impressione!

Il commissario: La facciamo già noi. Non abbiamo bisogno, per questo, di dipendere da voi. Ma è bello che anche voi siate giunti infine a tal punto; soltanto, liquidate definitivamente le carabattole mistiche, che non hanno nulla a che vedere con la scienza, e allora potremo discorrere tra noi dell’evoluzione. Nelle altre storie non entro. Se voi stessi ne sapete così poco, non siete più pericolosi. Con ciò ci risparmiate una pallottola. Abbiamo in Siberia dei campi molto utili, dove potrete dimostrare il vostro amore per gli uomini e collaborare validamente all’evoluzione. Là si ricaverà di più che sulle vostre cattedre tedesche.

Il cristiano (un po’ deluso): Voi sottovalutate la dinamica escatologica del cristianesimo. Noi prepariamo il futuro regno di Dio. Noi siamo la vera rivoluzione mondiale. Egalité, liberté, fraternité: questo è il nostro compito originario.

Il commissario: Peccato che altri abbiamo dovuto lottare per voi. Dopo, non è difficile essere presenti. Il vostro cristianesimo non vale un fico secco.

Il cristiano: Voi siete con noi! Io so chi siete. Tu pensi onestamente, sei un cristiano anonimo.

Il commissario: Non diventare insolente, giovanotto. Anch’io ora ne so abbastanza. Vi siete liquidati da soli, e con ciò ci risparmiate la persecuzione. Via.


(Hans Urs von Balthasar, “Cordula, ovverosia il caso serio”, Queriniana, 2008 (orig. 1966), pagg. 121-124)

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mercoledì 8 ottobre 2014

Un abbandono della verità



«Un Gesù che sia d'accordo con tutto e con tutti, un Gesù senza la sua santa ira, senza la durezza della verità e del vero amore, non è il vero Gesù come lo mostra la Scrittura, ma una sua miserabile caricatura.

Una concezione del “vangelo” dove non esista più la serietà dell'ira di Dio, non ha niente a che fare con la vangelo biblico.

Un vero perdono è qualcosa del tutto diverso da un debole lasciar correre.

Il perdono è esigente e chiede ad entrambi – a chi lo riceve ed a chi lo dona – una presa di posizione che concerne l'intero loro essere. Un Gesù che approva tutto è un Gesù senza la croce, perché allora non c'è bisogno del dolore della croce per guarire l'uomo.

Ed effettivamente la croce viene sempre più estromessa dalla teologia e falsamente interpretata come una brutta avventura o come un affare puramente politico.

La croce come espiazione, la croce come come “forma” del perdono e della salvezza non si adatta ad un certo schema del pensiero moderno.

Solo quando si vede bene il nesso fra verità ed amore, la croce diviene comprensibile nella sua vera profondità teologica. Il perdono ha a che fare con la verità e perciò esige la croce del Figlio ed esige la nostra conversione. Perdono è appunto restaurazione della verità, rinnovamento dell'essere e superamento della menzogna nascosta in ogni peccato.

Il peccato è sempre, per sua essenza, un abbandono della verità del proprio essere e quindi della verità voluta dal Creatore, da Dio».


(Da Joseph Ratzinger, “Guardare a Cristo”, pag. 76, Jaca Book 1986)

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mercoledì 1 ottobre 2014

Sulle ginocchia di sua madre



«Quello che chiamiamo uomo, cioè l'uomo morale, è forse formato a dieci anni; e se non lo è stato sulle ginocchia di sua madre, questa sarà sempre una grande sfortuna. Nulla può sostituire questa educazione.

Se la madre, soprattutto, ha creduto suo dovere imprimere profondamente sulla fronte del figlio il carattere divino, si può essere praticamente sicuri che la mano del vizio mai lo cancellerà.

Il giovane potrà senza dubbio allontanarsi; ma descriverà una curva rientrante che lo riporterà al punto da cui è partito».


(Joseph de Maistre – 1753-1821)

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giovedì 25 settembre 2014

Vorrei averti a fianco




«Spesso il cuore unisce ciò che grandi distanze separano. E non è davvero il minore sacrificio di una vita errante, pensare, con animo triste e afflitto, all'amico che si ama caramente e da cui si è lontani, mentre intorno a sé si hanno e si devono sopportare nemici, avversari ed importuni.

Fratello mio, vorrei averti a fianco per consolarmi nel mio esilio, ricevere i tuoi santi consigli, avere il tuo prezioso appoggio, gioire nel vedere il tuo caro viso, riconfortarmi con le tue esortazioni. Ma poiché le condizioni di questa vita mortale e la presente situazione non lo permettono, possa l'affetto vero realizzare quel che Dio ha indicato e comandato come sola grande realtà, quando disse: “ecco il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri”. Che ciascuno ami dunque realmente in Dio l'amico che non può avere materialmente vicino.
 

Sant'Agostino ha scritto: coloro che sono uniti dall'amore non sono mai lontani, anche se uno è qui e l'altro là. Anche il Salvatore l'ha dichiarato: vi si riconoscerà come miei discepoli da questo: che vi amerete scambievolmente. Di conseguenza seguiamo le raccomandazioni di San Giacomo che ha detto: la preghiera del giusto salverà il debole; e ancora: pregate gli uni per gli altri per essere salvati. E preghiamo gli uni per gli altri per conquistarci la salvezza eterna, e perché la misericordia di Dio, che ci ha separati sulla terra, ci riunisca nella felicità, nel più alto dei cieli ».

(San Bonifacio – Lettera 104)

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venerdì 19 settembre 2014

Ti voglio bene


Ti voglio bene,
non perché ho imparato a dirti così,
non perché il cuore mi suggerisce
questa parola,
non perché la fede mi fa credere
che sei amore,
nemmeno perché sei morto per me.

Ti voglio bene
perché sei entrato nella mia vita
più dell'aria nei miei polmoni,
più del sangue nelle mie vene.

Sei entrato
dove nessuno poteva entrare,
quando nessuno poteva aiutarmi,
ogniqualvolta nessuno poteva consolarmi.
Ogni giorno ti ho parlato. Ogni ora ti ho guardato e nel tuo volto ho letto la risposta, nelle tue parole la spiegazione, nel tuo amore la soluzione.

Ti voglio bene
perché per tanti anni
hai vissuto con me
ed io
ho vissuto di Te.

Ho bevuto alla tua legge
e non me n'ero accorta.
Me ne sono nutrita,
irrobustita,
mi sono ripresa,
ma ero ignara
come il bimbo che beve dalla mamma
e ancor non sa
chiamarla con quel dolce nome.

Dammi d'esserti grata
- almeno un po' -
nel tempo che mi rimane
di questo amore
che hai versato su me
e m'ha costretta
a dirti:
“ti voglio bene”.


 Chiara Lubich – Roma, 24 aprile 1960, domenica in Albis.

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venerdì 12 settembre 2014

Se ti amo



«Se ti amo, o mio Tesoro, non è per il Cielo che mi hai promesso.

Se temo di offenderti, non è per l’inferno di cui sono minacciato.

Quel che mi attira a te, sei tu, tu solo: è vederti inchiodato sulla croce, col corpo straziato, in agonia di morte.

E il tuo amore si è talmente impadronito del mio cuore che anche se il Paradiso non esistesse, ti amerei lo stesso; se non esistesse l’inferno ti temerei ugualmente.

Tu nulla hai da promettermi, nulla da darmi per provocare il mio amore: quand’anche non sperassi quel che spero, ti amerei come ti amo».

(Santa Teresa d'Avila)

sabato 6 settembre 2014

Due città, due amori



Il genere umano, dopo che “per l'invidia di Lucifero” si ribellò sventuratamente a Dio creatore e largitore de' doni soprannaturali, si divise come in due campi diversi e nemici tra loro; l'uno dei quali combatte senza posa per il trionfo della verità e del bene, l'altro per il trionfo del male e dell'errore.

Il primo è il regno di Dio sulla terra, cioè la vera Chiesa di Gesù Cristo; e chi vuole appartenervi con sincero affetto e come conviene a salute, deve servire con tutta la mente e con tutto il cuore a Dio e all'Unigenito Figlio di Lui.

Il secondo è il regno di Satana, e sudditi ne sono quanti, seguendo i funesti esempi del loro capo e dei comuni progenitori, ricusano di obbedire all'eterna e divina legge, e molte cose imprendono senza curarsi di Dio, molte contro Dio.

Questi due regni, simili a due città che con leggi opposte vanno ad opposti fini, con grande acume di mente vide e descrisse Agostino, e risali al principio generatore di entrambi con queste brevi e profonde parole: “Due città nacquero da due amori; la terrena dall'amore di sé fino al disprezzo di Dio, la celeste dall'amore di Dio fino al disprezzo di sé” (De Civit. Dei, lib. XIV, c. 17).

In tutta la lunga serie dei secoli queste due città pugnarono l'una contro l'altra con armi e combattimenti vari, benché non sempre con l'ardore e l'impeto stesso.

Ma ai tempi nostri i partigiani della città malvagia, ispirati e aiutati da quella società, che largamente diffusa e fortemente congegnata prende il nome di Società Massonica, pare che tutti cospirino insieme, e tentino le ultime prove. Imperocché senza più dissimulare i loro disegni, insorgono con estrema audacia contro la sovranità di Dio; lavorano pubblicamente e a viso aperto a rovina della Santa Chiesa, con proponimento di spogliare affatto, se fosse possibile, i popoli cristiani dei benefizi recati al mondo da Gesù Cristo nostro Salvatore.

(Papa Leone XIII, 20 Aprile 1884 – Humanum Genus)

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lunedì 1 settembre 2014

Ciò che è umano



Purtroppo, però, questo nostro mondo contemporaneo mostra molteplici ed acuti segni di quella che bene è stata definita la sua “ambivalenza”: segni di progresso magnifico, senza precedenti, in ogni settore delle scienze e delle attività umane; ma pure segni di “involuzione”, di progresso ingannevole, perché relativo a valori ed obiettivi fallaci, che come tali si rivelano alla lunga disumani e disumanizzanti l’umanità.

Quello che più preoccupa, però, è che, nella crescente e per sé benefica diffusione della cultura, nella cosiddetta “cultura di massa”, propugnata appunto dai mass-media, si fa sempre più un unico fascio di verità provate e di opinioni discutibili, di valori universali e di interessi particolari egoisticamente individualistici, di autentici principi deontologici e di fatti persino patologici. E tutto ciò sotto l’etichetta del “moderno” (anche se si tratta di errori e mali antichissimi), dietro il paravento del dovere-diritto all’informazione, e nel nome di un non bene inteso “pluralismo” che sarebbe proprio della cultura.

Molto saggiamente i fondatori del vostro Periodico hanno preferito a questo termine, già allora di moda in molti Paesi, il termine classico di “civiltà”. Anche la migliore antropologia culturale distingue tra “culture”, che possono essere “barbare”, e “civiltà”, che possono essere “primitive”, ma non barbare.

Barbaro in realtà è ciò che è disumano, anche se “evoluto”; civile ciò che è umano, anche se semplice e primitivo. Vi sono “pseudoculture”, denunciate dalla “maior saniorque pars” degli intellettuali; non vi sono al contrario “pseudociviltà”, ma solo “involuzioni” e “declini” di civiltà particolari, registrate dalla storia.


(San Giovanni Paolo II – Discorso al Collegio degli scrittori de “La Civiltà Cattolica” del 5 aprile 1982, par. 3)

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lunedì 30 giugno 2014

Bisogna salvare il seme



«Don Camillo spalancò le braccia [rivolto al crocifisso]: “Signore, cos’è questo vento di pazzia? Non è forse che il cerchio sta per chiudersi e il mondo corre verso la sua rapida autodistruzione?”.

“Don Camillo, perché tanto pessimismo? Al­lora il mio sacrificio sarebbe stato inutile? La mia missione fra gli uomini sarebbe dunque fallita perché la malvagità degli uomini è più forte della bontà di Dio?”.

“No, Signore. Io intendevo soltanto dire che oggi la gente crede soltanto in ciò che vede e tocca. Ma esistono cose essenziali che non si vedono e non si toccano: amore, bontà, pietà, onestà, pu­dore, speranza. E fede. Cose senza le quali non si può vivere. Questa è l’autodistruzione di cui par­lavo. L’uomo, mi pare, sta distruggendo tutto il suo patrimonio spirituale. L’unica vera ricchezza che in migliaia di secoli aveva accumulato. Un giorno non lontano si troverà come il bruto delle caverne. Le caverne saranno alti grattacieli pieni di macchine meravigliose, ma lo spirito dell’uomo sarà quello del bruto delle caverne […] Signore, se è questo ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi?”.

Il Cristo sorrise: “Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede e mantenerla in­tatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più, ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede. Ogni giorno di più uomi­ni di molte parole e di nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri. Uomini di ogni razza, di ogni estrazione, d’ogni cultura”.»


Giovannino Guareschi, Don Camillo e don Chichì, in Tutto Don Camillo. Mondo piccolo, II, BUR, Milano, 2008, pp. 3114-3115

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mercoledì 25 giugno 2014

Un “bene comune”



«La parola della Scrittura è attuale per la Chiesa di ogni tempo così come rimane sempre attuale la possibilità per l’uomo di cadere in errore. È dunque attuale anche oggi l’ammonimento della seconda lettera di Pietro a guardarsi “dai falsi profeti e dai falsi maestri che introdurranno eresie perniciose” (2, 1). L’errore non è complementare alla verità.

Non si dimentichi che, per la Chiesa, la fede è un “bene comune”, una ricchezza di tutti, a cominciare dai poveri, i più indifesi davanti ai travisamenti: dunque, difendere l’ortodossia è, per la Chiesa, opera sociale a favore di tutti i credenti.

In questa prospettiva, quando si è davanti all’errore, non bisogna dimenticare che vanno tutelati i diritti del singolo teologo ma vanno tutelati anche i diritti della comunità. Naturalmente tutto va sempre visto alla luce del grande ammonimento evangelico: “verità nella carità”.

Anche per questo, quella scomunica in cui ancor oggi incorre l’eretico, è considerata come “sanzione medicinale”: una pena, cioè, che non vuole castigarlo quanto correggerlo, guarirlo. Chi si convince del suo errore e lo riconosce è sempre riaccolto a braccia aperte, come un figlio particolarmente caro, nella piena comunione della Chiesa».


“Rapporto sulla Fede”, Vittorio Messori intervista il Card. Ratzinger – 1985. Capitolo 1

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mercoledì 18 giugno 2014

Un cannibale



Un cannibale è ingenuo: prima mangia qualche missionario, poi, avendo provato che in fin dei conti non sono così buoni da mangiare come lo sono da sentire, si mette ad ascoltarne la predicazione.
 

Ma con uno scristianizzato è molto dura: crede di sapere già chi è Cristo e quindi non ti ascolta più.

È la peggiore ignoranza!

Non quella del primitivo che sa di ignorare e giunge già alla sapienza più feconda, che è quella dell'ascolto. Ma quella del mezzo-sapiente, che crede di sapere mentre non sa, e quindi ignora di ignorare.


Fabrice Hadjaji, Come parlare di Dio oggi?

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giovedì 12 giugno 2014

Sacrilegio


Oggi se pranza in piedi in ogni sito;
er vecchio tavolino apparecchiato,
che pareva un artare consacrato
nun s’usa più: la prescia l’ha abolito.

‘Na vorta er pranzo somijava a un rito,
t’accommodavi pracido e beato,
aprivi la sarvietta de bucato…
un grazie a Cristo e poi… bon appetito!

Nò nun c’è tempo de mettesse a sede,
la gente ha perso la cristianità
e magna senz’amore e senza fede.

È proprio un sacrilegio: invece io,
quanno me piazzo a sede pe’ magnà,
sento ch’esiste veramente Dio!

Di Aldo Fabrizi

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giovedì 5 giugno 2014

Sussidiarietà e poliarchia


«Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz’altro il principio di sussidiarietà, espressione dell’inalienabile libertà umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi. 
Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista.

Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano.

Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente. 

La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace».

Benedetto XVI Caritas in Veritate – 57

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sabato 31 maggio 2014

La concezione idolatrica della democrazia


La tradizionale dottrina cattolica insegna che “la Chiesa non riprova nessuna delle varie forme di governo, purché adatte per sé a procurare il bene dei cittadini” (Leone XII, Encycl. «Libertas»).

Il grande Pio XII, di gloriosa e immortale memoria, nel celebre radiomessaggio “Benignitas et humanitas” del 24 dicembre 1944, esponeva quali sono le caratteristiche di una sana democrazia. Il Romano Pontefice tra l'altro affermò:

“Una sana democrazia, fondata sugl'immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate, sarà risolutamente contraria a quella corruzione, che attribuisce alla legislazione dello Stato un potere senza freni né limiti, e che fa anche del regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e semplice sistema di assolutismo. 
L'assolutismo di Stato (da non confondersi, in quanto tale, con la monarchia assoluta, di cui qui non si tratta) consiste infatti nell'erroneo principio che l'autorità dello Stato è illimitata, e che di fronte ad essa – anche quando dà libero corso alle sue mire dispotiche, oltrepassando i confini del bene e del male, - non è ammesso alcun appello ad una legge superiore e moralmente obbligante”.


Purtroppo, dobbiamo constatare che molta gente ha una concezione relativista della democrazia, basti pensare che l'abominevole crimine dell'aborto è considerato erroneamente “moralmente lecito” solo perché è stato legalizzato dai Parlamenti di numerosi Stati nazionali. Un delitto può essere legale per gli uomini, ma non lo sarà mai per Dio.
Ormai dilaga una concezione idolatrica della democrazia. Ecco cosa scriveva in proposito Padre Anselm Günthör:

“Nessuna forma di Stato e nessun sistema politico offrono di per sé la garanzia di un buon governo.
Tutto dipende dalla maturità, dalla formazione e dall’atteggiamento morale personale dei detentori del potere statale”.
[Quindi] è irragionevole e imprudente imporre la forma democratica di Stato a quei popoli, che non sono preparati a gestirla. [...] pur riconoscendo i vantaggi della forma democratica di Stato, [...] bisogna tener conto anche delle condizioni dei singoli popoli. […]
Il cristiano non può condividere il culto della democrazia.
Per “culto della democrazia” intendiamo la convinzione politica secondo la quale la forma democratica di Stato in quanto istituzione, di per sé e da sola, garantisce il benessere terreno. [...]
Ciò che è democratico equivale allora a progressista e a infallibilmente buono, mentre ciò che è non-democratico si identifica con il regresso e con l’inumano. [Questo] dogma universale e intollerante dell’odierno ordinamento sociale, […] questo culto della democrazia è pagano: fa di un’istituzione terrena un idolo e una dispensatrice di salvezza e si dimostra anche molto poco democratico e pericoloso”.

[cfr. “Chiamata e risposta”, Edizioni Paoline, Roma 1979, vol. III, pp. 267-270].

cordialiter.blogspot.it - 26 febbraio 2014

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sabato 24 maggio 2014

“Noi siamo orgogliosi”



«Noi siamo orgogliosi del fatto che mille anni fa' il nostro re, Santo Stefano, abbia fondato lo Stato ungherese su solide fondamenta, e reso il nostro paese parte dell'Europa cristiana (…)

Siamo orgogliosi che la nostra gente per secoli abbia difeso l'Europa in una serie di battaglie e arricchito i valori comuni dell'Europa con il suo talento e la sua diligenza.

Promettiamo di preservare il ruolo della Cristianità nella salvaguardia della nazione.

Siamo legati alle diverse tradizioni religiose del nostro paese.

Promettiamo di preservare l'unità intellettuale e spirituale della nostra nazione distrutta dalle tempeste del secolo scorso.

Le nazionalità che vivono con noi fanno parte della comunità politica ungherese e sono parti costitutive dello Stato.

Ci impegniamo a promuovere e a salvaguardare il nostro patrimonio, la nostra lingua unita, la cultura ungherese, le lingue e le culture delle nazionalità che vivono in Ungheria, insieme ai patrimoni artificiali e naturali del Bacino Carpatico.

Ci assumiamo la responsabilità dei nostri discendenti: proteggeremo inoltre le condizioni di vita delle future generazioni facendo uso prudente delle nostre risorse materiali, intellettuali e naturali.

Crediamo che la nostra cultura nazionale sia un ricco contributo alla diversità dell'unione europea.

Rispettiamo la libertà e la cultura di altre nazioni e ci impegniamo a cooperare con ogni nazione del mondo. (…)

Riteniamo che la famiglia e la nazione costituiscano la base della nostra coesistenza e che i nostri valori coesivi fondamentali siano la fedeltà la fede e l'amore. (…)

Onoriamo i risultati della nostra costituzione storica e onoriamo la Sacra Corona che rappresenta la continuità costituzionale dello Stato Ungherese e l'unità della nazione.

Non riconosciamo la sospensione della nostra costituzione storica dovuta alle occupazioni straniere. Neghiamo qualsiasi statuto di limitazioni per i crimini disumani commessi contro la nazione ungherese e i suoi cittadini sotto le dittature nazionali socialiste e comuniste.

Non riconosciamo la costituzione comunista del 1949, poiché fu la base del ruolo tirannico, la proclamiamo non valida.

Concordiamo con i membri del primo Parlamento libero che ha proclamato come sua decisione che la nostra attuale libertà risale alla Rivoluzione del 1956.

Datiamo la restaurazione dell'autodeterminazione della nostra nazione, persa il 19 marzo 1944, dal secondo giorno di maggio 1990, quando è stato formato il primo organismo liberamente eletto di rappresentazione popolare.

Consideriamo questa data come l'inizio della nuova democrazia del nostro Paese e dell'ordine costituzionale».

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Prologo della Costituzione Ungherese in vigore dal 1° Gennaio 2012.

domenica 18 maggio 2014

Er circolo del libbero pensiero


Un gatto bianco, ch’era presidente
der Circolo der Libbero Pensiero
sentì che un gatto nero,
libero pensatore come lui,
je faceva la critica
riguardo a la politica
ch’era contraria a li pensieri sui.

“Giacche nun badi alli fattacci tui,
- Je disse er gatto bianco inviperito -,
rassegnerai le proprie dimissione
e uscirai da le file der partito:
che qui la poi pensà liberamente
come te pare a te, ma a condizione
che t’associ a l’idee der presidente
e a le proposte de la commissione!”

“È vero, ho torto, ho aggito malamente…”
Rispose er gatto nero.
E pe restà ner Libero Pensiero
Da quela vorta nun pensò più gnente.

(Trilussa - 1920)

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domenica 11 maggio 2014

Scambiare la propria cecità con la morte di Dio



«Oggi la verità è in crisi. Alla verità oggettiva, che ci dà il possesso conoscitivo della realtà, si sostituisce quella soggettiva: l’esperienza, la coscienza, la libera opinione personale, quando non sia la critica della nostra capacità di conoscere, di pensare validamente. 

La verità filosofica cede all’agnosticismo, allo scetticismo, allo «snobismo» del dubbio sistematico e negativo. 
Si studia, si cerca per demolire, per non trovare. 
Si preferisce il vuoto. Ce ne avverte il Vangelo: «Gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce» (Io. 3, 19). 
E con la crisi della verità filosofica (oh! dov’è svanita la nostra sana razionalità, la nostra philosophia perennis?) la verità religiosa è crollata in molti animi, che non hanno più saputo sostenere le grandi e solari affermazioni della scienza di Dio, della teologia naturale, e tanto meno quelle della teologia della rivelazione; gli occhi si sono annebbiati, poi accecati; e si è osato scambiare la propria cecità con la morte di Dio.

Così la verità cristiana subisce oggi scosse e crisi paurose. 
Insofferenti dell’insegnamento del magistero, posto da Cristo a tutela ed a logico sviluppo della sua dottrina, ch’è quella di Dio (Io. 7. 12; Luc. 10, 16; Marc. 16, 16), v’è chi cerca una fede facile vuotandola, la fede integra e vera, di quelle verità, che non sembrano accettabili dalla mentalità moderna, e scegliendo a proprio talento una qualche verità ritenuta ammissibile (selected faith); altri cerca una fede nuova, specialmente circa la Chiesa, tentando di conformarla alle idee della sociologia moderna e della storia profana (ripetendo l’errore d’altri tempi, modellando la struttura canonica della Chiesa secondo le istituzioni storiche vigenti); altri vorrebbero fidarsi d’una fede puramente naturalista e filantropica, d’una fede utile, anche se fondata su valori autentici della fede stessa, quelli della carità, erigendola a culto dell’uomo, e trascurandone il valore primo, l’amore e il culto di Dio; ed altri finalmente, con una certa diffidenza verso le esigenze dogmatiche della fede, col pretesto del pluralismo, che consente di studiare le inesauribili ricchezze delle verità divine e di esprimerle in diversità di linguaggio e di mentalità, vorrebbero legittimare espressioni ambigue ed incerte della fede, accontentarsi della sua ricerca per sottrarsi alla sua affermazione, domandare all’opinione dei fedeli che cosa vogliono credere, attribuendo loro un discutibile carisma di competenza e di esperienza, che mette la verità della fede a repentaglio degli arbitri più strani e più volubili.

Tutto questo avviene quando non si presta l’ossequio al magistero della Chiesa, con cui il Signore ha voluto proteggere le verità della fede (Cfr. Hebr. 13, 7; 9, 17).


Ma per noi che, per divina misericordia, possediamo questo scutum fidei, lo scudo della fede (Eph. 6, 16), cioè una verità difesa, sicura e capace di sostenere l’urto delle opinioni impetuose del mondo moderno (Cfr. Eph. 4, 14), una seconda questione si pone, quella del coraggio: dobbiamo avere, dicevamo, il coraggio della verità. 
Non faremo adesso alcuna analisi su questa virtù morale e psicologica, che chiamiamo coraggio, e che tutti sappiamo essere una forza d’animo, che dice maturità umana, vigore di spirito ed ardimento di volontà, capacità d’amore e di sacrificio; noteremo soltanto che, una volta di più, l’educazione cristiana si dimostra una palestra di energia spirituale, di nobiltà umana, e di padronanza di sé, di coscienza dei propri doveri.

E aggiungeremo che questo coraggio della verità è domandato principalmente a chi della verità è maestro e vindice, esso riguarda anche tutti i cristiani, battezzati e cresimati; e non è un esercizio sportivo e piacevole, ma è una professione di fedeltà doverosa a Cristo e alla sua Chiesa, ed è oggi servizio grande al mondo moderno, che forse, più che noi non supponiamo, attende da ciascuno di noi questa benefica e tonificante testimonianza».

PAOLO VI - Udienza Generale, Mercoledì 20 maggio 1970.

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lunedì 5 maggio 2014

Gli occhi sulla meta



Un giovane monaco andò un giorno a trovare un vecchio monaco, carico di anni e di esperienza e gli disse: “Padre mio, spiegami come mai tanti vengono alla vita monastica e tanto pochi perseverano, tanti tornano indietro”.

Il monaco rispose: “Vedi, succede come quando un cane ha visto la lepre. Si mette a correre dietro la lepre e abbaia forte. Altri cani sentono il cane che abbaia correndo dietro alla lepre e anch'essi si mettono a correre: sono in tanti che corrono insieme, abbaiando, però uno solo ha visto la lepre, uno solo la segue con gli occhi. E a un certo punto, uno dopo l'altro, tutti quelli che non hanno veramente visto la lepre e corrono solo perché uno l'ha vista, si stancano, si sfiancano. Colui che invece ha fissato gli occhi sulla meta in maniera personale, arriva fino in fondo e acchiappa la lepre”.

E diceva: “Vedi, ai monaci accade così. Soltanto quelli che hanno fissato gli occhi veramente sulla persona di Gesù Cristo, nostro Signore crocefisso, arrivano fino in fondo”.


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